La discussione pubblica innescata dai tragici eventi che hanno investito una significativa parte di territorio situata nella parte settentrionale delle Marche induce ad alcune considerazioni. Gli elementi sono noti. Dalla eccezionale, senza precedenti, concentrazione di quantità di pioggia in poche ore alle amare considerazioni su una disponibilità di fondi per la prevenzione che non si è riusciti a tradurre in opere, che avrebbero salvato vite e contenuto danni, in un arco di tempo accettabile. I contenuti della discussione sono del tutto sovrapponibili a quelle seguite alle tragedie precedenti, così come le risposte e le dichiarazioni pubbliche di chi ha responsabilità amministrative sul territorio o a livello centrale al momento degli eventi. Da un lato quindi si rileva la significativa estensione dei territori vulnerabili nel nostro Paese, che si trovano in pressoché tutte le aree della nostra Penisola. Nessuno, a mettere assieme i cataclismi avvenuti o sfiorati, può dirsi realmente al sicuro. Dall’altro una certa volatilità di impegni e propositi: è vero che gli interventi sul territorio contro il dissesto richiedono interventi su percorsi di lungo periodo, non sono cioè questioni che si chiudono in pochi mesi. Ma se a distanza di anni, se non di decenni, le tragedie continuano ad accadere con frequenza sempre maggiore, è evidente come qualcosa, molto, non torni.
Credo che sia persino doveroso pretendere da un Paese che ha saputo avviare e portare a termine una vera e propria rivoluzione costituita dalla nascita della Protezione civile, un modello di struttura e di intervento riconosciuto in tutto il mondo, di avviare un altrettanto, forse più importante rivoluzione, che è innanzitutto culturale. Affermata finalmente la consapevolezza che quella della riduzione delle emissioni è un’urgenza da cui dipendono persino le possibilità di sopravvivenza dell’umanità, va chiarito che gli effetti benefici di questo percorso saranno molto lenti ad arrivare. Nel frattempo tutte le conseguenze del cambiamento climatico, gli eventi estremi, continueranno a manifestarsi, e il nostro è tra i Paesi più esposti. Se la transizione ecologica è una priorità, l’adattamento lo è persino di più. Non basta – anche ammesso che abbia sempre successo, e non è questo evidentemente il caso – l’approccio che punta al finanziamento centrale delle opere, a cominciare da quelle più costose, e alla rimozione di tutte le strozzature che ne impediscono o rallentano la realizzazione. Servono naturalmente tutti gli interventi infrastrutturali del caso ma serve prima di tutto, direi, una rivoluzione più silenziosa e più diffusa, un cambiamento che agisca non tanto a livello di hardware quanto di software. Apprendere dalle cronache dell’inchiesta della magistratura in corso nelle Marche che nel paese più colpito l’allarme di livello regionale è scattato solo quando tutto era pressoché sepolto dal fango, un ritardo causato della forte carenza del sistema di rilevamento, fa male al cuore. Lo svecchiamento deve partire da questo tipo di evidenze, e deve riguardare più di ogni altra cosa la pubblica amministrazione. Credo che il forte ricambio in corso in qualche modo favorisca l’affermazione di un sistema in cui le responsabilità siano in capo al singolo funzionario, e per responsabilità intendo quelle di riuscire a fare fronte, forti delle giuste conoscenze e della giusta considerazione dei rischi e delle priorità, alle esigenze di prevenzione e manutenzione, oltre che di efficacia del sistema di allerta nel proprio territorio. Una rivoluzione che chiama necessariamente in causa il coinvolgimento della popolazione, il ruolo dei social media e di quelli tradizionali, la scuola. Siamo tutti esposti e dobbiamo cominciare tutti a lavorare per proteggerci.
Michele Fina
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