E’ difficile esprimere un giudizio netto sull’esito della Conferenza sul clima di Glasgow. I risultati raggiunti devono infatti essere valutati alla luce delle aspettative e delle possibilità, che a loro volta nel corso delle settimane hanno subito cambiamenti ed evoluzioni. Presentato nei mesi scorsi come una sorta di ultima spiaggia per la salvezza del pianeta, il confronto che si è svolto alla Cop26 ha sin dalle premesse (Il G20 che si è svolto a Roma nei giorni precedenti) evidenziato difficoltà che a tratti sono parse insormontabili, tanto da dare per scontato il fallimento. E’ emersa da subito la rigidità di Paesi come la Cina e l’India, giganti senza il cui contributo, è noto, è semplicemente impensabile puntare a costruire un accordo sul clima che possa definirsi non solo ambizioso, ma minimamente efficace.

E in effetti questa rigidità si è riversata nei colloqui di Glasgow, ed è ben visibile in alcuni passaggi del documento finale: la rinuncia alla terminologia esplicita che avrebbe disegnato l’uscita dal carbone, per sostituirla con un più sfumato percorso di “riduzione”, l’assenza dell’indicazione della data del 2050 come soglia per la neutralità climatica, che ha lasciato il posto a un più vago “attorno alla metà del secolo”. Sono circostanze e formulazioni che giustificano la delusione di chi nutriva ben altre speranze sugli impegni che avrebbero dovuto prendere i Paesi maggiormente responsabili del caos climatico.

Detto questo, e senza negare che la Cop26 abbia tutte le sembianze di un’occasione mancata, occorre mettere in risalto anche i risultati, che appaiono modesti se assunti nella loro staticità, ma che invece devono – non c’è alternativa, la chiamata è senza appello – costituire la base per un percorso che deve proseguire e di un lavoro che è in attesa di un salto di qualità. L’appuntamento è tra un anno, alla Cop27 in Egitto, a Sharm El Sheikh. La novità starà nelle premesse, perché si arriverà a quel confronto con un quadro di paletti e obiettivi, una road map, la cui definizione è stato il principale dato positivo della Cop26.

In estrema sintesi, si è recuperata tutta la validità e la centralità degli accordi di Parigi di sei anni fa, assumendone le indicazioni come riferimenti, su tutte la soglia di 1,5 gradi al di sotto del quale limitare l’aumento di temperatura rispetto ai livelli preindustriali. Il target di medio periodo è stato fissato al 2030 ed è costituito dalla diminuzione del 45 per cento delle emissioni di gas serra: per raggiungerlo si fissa la necessità che ogni Paese prepari piani di riduzione. Per quanta riguarda le altre questioni, va sottolineato l’esordio, sebbene come detto molto sofferto, dell’espressione “combustibili fossili”, il corposo investimento programmato per piantare 1000 miliardi di alberi, l’impegno a organizzare (fino al 2023) altri vertici per raggiungere il finora disatteso target di aiuti ai Paesi più poveri e più esposti al cambiamento climatico.

Un quadro, come si vede, piuttosto mobile, per giudicare il quale sarà necessario aspettare perlomeno i prossimi mesi, e monitorare la natura dell’avvicinamento, inquadrato in una dichiarazione congiunta, tra Stati Uniti e Cina. Il concorso del gigante asiatico, anche per trascinare soggetti ancora più “riluttanti” come l’India, sarà decisivo.

Michele Fina