“Il ragazzo che rubava le parole” (Castelvecchi), romanzo di Antonio Del Giudice, è stato presentato nel corso del 114esimo incontro della rubrica “Dialoghi, la domenica con un libro”. Michele Fina ne ha discusso con l’autore e con Marco Presutti. Fina l’ha definito un “romanzo di formazione, un percorso che mi sembra abbia anche molto di autobiografico. Conoscendo Del Giudice mi aspettavo un romanzo con caratteristiche giornalistiche ma invece la scrittura è profondamente narrativa, a tratti cruda. La storia è molto intensa, quella di un ragazzo strappato dal niente e portato nel mondo delle parole che mai in questo caso sono fatti. In quegli anni c’era poi l’idea di un rapporto intenso con le ideologie e tra ideologie e religioni, quella che i conflitti storici entrassero nella vita delle persone. La storia entra con le sue idee gigantesche attraverso la concretezza dei fatti che accadono al protagonista. E’ anche un atto d’amore verso la città dell’autore, Andria”.
Per Presutti “merita di essere letto, è un romanzo che parla della storia di un italiano, nato poco dopo la guerra, nel periodo interessante dell’avvio della Repubblica. Il protagonista, Andrea, nasce in una famiglia della Puglia rurale che vive del commercio dei prodotti della terra. Il padre è un uomo che non ha avuto praticamente possibilità di formarsi, è sbrigativo e vivace, vive nel rimpianto di una giovinezza vissuta negli ideali del fascismo. Spesso ci dimentichiamo che in una parte del Sud si è passati rapidamente dalla dittatura alla democrazia, non c’è stato momento di lotta che permettesse di maturare altri ideali. La madre ha invece uno sguardo più attento, crede che Andrea possa avere un cammino di riscatto e che possa farcela solo attraverso la scuola e la formazione. Ma il cammino di Andrea sarà difficoltoso, dovrà prendere la strada del Nord e studiare con il sostegno della Chiesa. Andrea deve prendersi la vita a brandelli, nel dolore e nell’incomprensione. La scrittura sa profondamente di umanità, non è né indulgente né giudicante. Poi c’è il contesto storico, con l’avvio della fase politica del centrosinistra, vissuta da molti con preoccupazione, anche nel mondo dell’educazione religiosa di Andrea. Il ritorno in Puglia permetterà al protagonista di confrontarsi con altri aspetti. Lui apparirà spesso come un ingenuo ma farà in fretta ad imparare. Un’altra chiave del romanzo è sul processo di apprendimento e sul bisogno di capire. Il processo di crescita di Andrea avviene perché ha il desiderio di conoscere, attraverso le parole, i libri, gli incontri, le sbucciature della vita, gli infortuni sentimentali”.
Del Giudice ha detto che il suo “è il romanzo di una generazione di cui ho fatto parte, di autobiografico c’è questo, faccio parte dei ragazzi nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta. L’istruzione con il sostegno della Chiesa era un passaggio obbligato per chi non aveva risorse. Andrea ha in comune con me la voglia di capire. L’apprendimento non finisce mai, questo romanzo è stato scritto anche con questa traccia. Andrea si interroga continuamente, anche su alcune contraddizioni che riguardano il fascismo e il Mezzogiorno, che ad esempio al momento del referendum scelse la monarchia. Verso la fine del romanzo Andrea scopre il padre, una figura che spesso a quel tempo era assente, decidendo di verificare con lui il racconto della sua vita.
Dalla centesima puntata la rubrica si presenta in veste rinnovata, avvalendosi della collaborazione di Michele Fina con l’attore Lino Guanciale, con Giovanna Di Lello (direttrice del John Fante Festival “il dio di mio padre”) e con Massimo Nunzi (compositore e direttore d’orchestra, trombettista e divulgatore).
La registrazione del dialogo è disponibile qui.
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