Si parla di aree interne e di aree periferiche come se fossero una frazione molto minoritaria del territorio italiano, ma in realtà ne costituiscono circa i tre quinti, abitati da un terzo della popolazione. Sono state vittime negli ultimi decenni a causa di un modello di sviluppo squilibrato, che ha costruito la mappa delle opportunità e del progresso sulla base della vicinanza ai “centri” urbani e costieri, di un preoccupante spopolamento. Pericoloso per quei territori, ma anche per il sistema Paese nel suo complesso: la coesione territoriale è un fattore decisivo della crescita, e l’abbandono sistematico di una parte così consistente del Paese lo pone di fatto di fronte all’inquietante prospettiva di perdere pezzi di identità e di cultura.
Da abruzzese delle aree interne, che da pochi anni è tornato a vivere “a casa”, parlo della questione particolarmente consapevole della sua importanza. Ho perciò condiviso e ammirato da subito, quando l’ho incrociato nel corso del cammino della rubrica domenicale sui libri che curo da circa un anno, il generoso lavoro di Piero Lacorazza e della Fondazione Appennino che dirige. Ha da pochi giorni tagliato il traguardo dei due anni di vita, ma viene da un impegno, da un lavoro, da una passione che di molto ne precede la formale esistenza. Concentrata sulle problematiche dei territori della dorsale appenninica, che di quell’ampia area descritta in apertura costituiscono una porzione molto consistente, ha tra le sue attività la promozione della collana di libri “Civiltà Appennino”, quelle nella scuola per il contrasto alla povertà educativa, alcune azioni innovative per la formazione, l’agricoltura e il turismo.
E’ un ente del terzo settore, un’impresa sociale di cui mi piace parlare perché opera con un approccio che mette assieme pensiero e azione, dando “nel piccolo” un esempio che è anche un metodo. La questione decisiva, volendo assecondare la visione a cui siamo abituati che contrappone le aree interne e periferiche a quelle centrali e urbane, è che in queste si trovano opportunità e sviluppo, ma poca “anima”, per usare la definizione di Lacorazza. Nelle aree interne, al contrario, gli elementi identitari abbondano ma le opportunità latitano. Allora la strada può essere quella di portare innovazione ed elementi di sostenibilità (facendo leva sulle ricchezze ambientali e dell’agricoltura, ad esempio), una strada che è oltretutto avvalorata dalle caratteristiche e dai dettami della nuova fase che si apre nel dopo – pandemia. In questo modo quell’identità può emergere come vantaggio competitivo, elemento di ricchezza e di sviluppo. Ecco quindi iniziative come quelle sulla tracciabilità del cibo, e della classificazione della sostenibilità dei territori.
Come ha detto Piero Lacorazza in una dei dialoghi a cui ho partecipato assieme a lui: “L’idea di riabitare le aree interne non deve essere affidata a un certo romanticismo. C’è bisogno che in questi luoghi si possa vivere, attraverso i servizi e le infrastrutture necessari, c’è bisogno di non essere costretti, per poterne fruire, di vivere in città”. Trovare una strada è necessario.
Michele Fina